Le storie senza tempo di Carpaccio

Scuola of the Dalmatians, Interior
Scuola di San Giorgio e Trifone (Scuola degli Schiavoni), interno.

Non ricordo quando fu, esattamente, che visitai per la prima volta la Scuola degli Schiavoni. Ricordo però l’emozione.

Quando entrai, fu come precipitare dentro la storia.
Nella piccola aula, con travi a soffitto e dossali di legno lungo le pareti, le tele di Carpaccio mi apparvero come un fregio fiabesco.

Erano scurite dal tempo e male illuminate, eppure mai come in quel momento ebbi la sensazione della presenza di un mondo che arrivava da lontano.

I dalmati

La Scuola degli Schiavoni, oggi nota come Scuola Dalmata di San Giorgio e San Trifone, era un’istituzione caritativa e di solidarietà per i molti dalmati che vivevano a Venezia.

Il legame con la Dalmazia, la regione sulla sponda orientale dell’Adriatico, aveva origini antiche, precedenti persino al vincolo politico di quando divenne territorio dello Stato da Mar della Repubblica. Fin dall’XI secolo, infatti, la riva davanti a Palazzo Ducale, dove i mercanti dalmati attraccavano e vendevano le loro merci, era chiamata Riva degli Schiavoni.
Nello spazio intimo della Scuola, che rappresentava la comunità dei dalmati, Carpaccio diede vita a un ciclo pittorico narrativo e poetico allo stesso tempo.

Carpaccio, San Giorgio contro il drago, 1502, Scuola Dalmata dei S.S. Giorgio e Trifone

San Giorgio

I tre teleri a sinistra raccontano la leggenda di San Giorgio, prototipo dei molti cavalieri erranti della nostra letteratura e virtuoso soldato cristiano.

Mentre si trova nei pressi della città di Silene, il santo scorge una giovane donna, una principessa, destinata come offerta al vorace drago che tiene in scacco la città e che reclama costantemente nuove vittime. Senza esitazioni, San Giorgio ingaggia uno scontro con il mostro per salvare la principessa.
Nel secondo telero, San Giorgio trascina il drago ferito, ma ancora vivo, sulla piazza principale di Silene. Forse aveva in mente uno scambio con il re. Infatti, solo dopo avergli strappato la promessa di farsi battezzare, il drago viene definitivamente eliminato davanti alla folla, testimone attonito del trionfo del guerriero cristiano.
Nel terzo telero, il re e la figlia, inginocchiati davanti a San Giorgio, ricevono il battesimo direttamente dalle sue mani.

Della leggenda, Carpaccio sceglie dunque tre episodi, ma in ognuno di loro ci parla di molto altro: di tessuti preziosi decorati a palmette e fiori di origine bizantina, moresca o cinese; dei musicisti sempre presenti alle feste importanti e dei loro strumenti; di architetture cristiane e islamiche; ci mostra il re pronto a dare in moglie all’eroe la propria figlia, un servitore affannato, folle di curiosi, piante e uccelli.

Attraverso questi dettagli, così familiari ai suoi contemporanei, Carpaccio racconta di Venezia stessa e dei suoi abitanti.
 Per questa sua capacità descrittiva e affabulatoria, Carpatccio è stato definito un pittore-narratore.
Si potrebbe chiamarlo anche un cantastorie, perché per ogni scena sembra invitare a comporre una strofa da leggere ad alta voce.

C’è chi in Carpaccio vede l’abilità di un regista nel mettere in scena dei piani sequenza. Eppure, nella molteplicità dei dettagli e delle storie che si trovano in ogni telero, al centro domina un fermo immagine.

Se prendiamo il primo episodio, l’elemento che più richiama l’attenzione è la lancia rossa manovrata dal cavaliere che sferra il suo colpo con un movimento da destra verso sinistra. Dietro al santo vediamo la principessa e una chiesa in cima a una collina, insieme ad altri simboli cristiani.

La leggenda si specchia nel mondo reale: il drago non è più simbolo dei pagani, ma dei saraceni, mentre San Giorgio indossa un’armatura contemporanea. Sembra l’idealizzazione cavalleresca della guerra concreta e cruenta che a migliaia, tra veneziani e dalmati, da decenni combattevano contro gli Ottomani.

Non è più leggenda, e nemmeno le contingenti guerre turco-veneziane: una luce dorata avvolge i due protagonisti, che pur nella violenza dello scontro sembrano immobili nello spazio, cristallizzati in un continuo presente, come monito dell’universale lotta tra bene e male, destinata a durare fino alla fine dei tempi, quando finalmente Cristo tornerà sulla terra e vincerà definitivamente il male.

L'incontro dei due fidanzati, ciclo di Sant'Orsola, 1490-95, Gallerie dell'Accademia

Ereo e Orsola: i fidanzati

C’è un’altra opera di Carpaccio dove, nel dettaglio di un episodio, si può trovare un momento universale: si tratta dell’incontro tra Orsola e Ereo, nel ciclo di Sant’Orsola alle Gallerie dell’Accademia di Venezia.

La principessa di Bretagna accetta di sposare il figlio del re di Britannia, se lui acconsente a convertirsi alla religione cristiana. Dopo che gli ambasciatori hanno preso gli accordi, Ereo si reca in Bretagna, dove i due giovani sposi si incontrano per la prima volta.
Li vediamo, quasi un dettaglio nell’enorme telero pieno di figure. Si assomigliano: son belli, biondi, nobili, vestiti di abiti preziosi e completamente ignari del tragico destino di morte che li attende. Nello scambio dei loro primi sguardi, si riconoscono: sono uno per l’altra.

L’intensità della somiglianza tra i due amanti, che allude all’unione di due anime in un unico corpo, era già stata cantata qualche secolo prima nella leggenda di Tristano e Isotta, i due giovani principi, che, per errore, bevono un filtro d’amore. Stregati dalla irresistibile magia, per amarsi, infrangono tutte le regole dell’onore e dell’onestà.

A Venezia, la leggenda era molto popolare grazie ai trovatori, poeti erranti che la recitavano nei campi davanti a un pubblico rapito che li ascoltava sospirando. Mi piace immaginare che, un giorno, tra loro ci fosse stato anche Carpaccio, e che i vibranti versi del poeta non lo avessero più lasciato:

Un uomo, una donna; una donna, un uomo:

Tristano, Isotta; Isotta, Tristano.

Qui, in questo gioco di scambio di sostantivi e di nomi, il poeta intreccia il destino dei due nobili amanti, che specchiandosi l’uno nell’altro, si fondono in un’unica essenza.

Carpaccio, pittore di storie, sapeva in realtà dare forma a sentimenti profondi e universali.

Comments are closed.

Italiano